«E adesso, la nostra cena? La faremo ancora, senza di lui?». Anche Vincenzino ha perso il suo capitano, ed è smarrito. Gli scappa di parlarne al presente, come chi non può abituarsi all’idea, e alla fine la voce di Vincenzo D’Amico si incrina: «Ci vediamo sempre...ecco vedi, dico vediamo, e invece devo dire che ci vedevamo, e lui non verrà più...a cena insieme e per una lunga serata tra amici, noi della Lazio, per anni. Io, Pino Wilson, Giancarlo Oddi che gli è stato più vicino di tutti, Bruno Giordano, Michelangelo Sulfaro, e finché c’erano, anche Felice Pulici, Mario Facco. Un appuntamento fisso. Da due anni e mezzo vivo a Madeira, ma ogni volta che torno facciamo questa cena, e chissà che pena sarà, incontrarsi senza di lui, siamo tutti troppo amici. Mai persi di vista, io e il capitano. Eravamo legati da una cosa troppo importante».

Vincenzo, hai saputo della morte di Pino Wilson nel bel mezzo dell’Oceano, dove vivi, nella portoghese Madeira.

«E in un modo scioccante. Ero all’oscuro di tutto, poi leggo il messaggio di un giornalista di tg: “Volevamo parlare con lei per avere un ricordo di Pino Wilson”. Lì per lì non capisco nulla, penso: un ricordo di che? Ma subito mi arrivano le telefonate degli amici che mi informano. Una botta micidiale».

D’Amico arrivò bambino alla Lazio, nel 1970, e nel 1971 entrò in prima squadra con quel giovane capitano.

«Io avevo 17 anni, lui era già Wilson. Me ne stavo lì, in silenzio, sull’attenti. Diventò capitano quell’anno con Maestrelli, prima la fascia era di Nello Governato o di Ferruccio Mazzola. Io esordii nella Lazio in quella stagione, con Pino in campo, Massa e Chinaglia compagni d’attacco. Piano piano, nei mesi, l’ho conosciuto meglio, ed è nato un grande rapporto che è durato tutta la vita. Sempre stato un uomo di grande personalità, Pino, di livello culturale superiore alla media, non c’era quasi nessuno all’epoca tra i calciatori di serie A che andasse all’università come lui, e si laureò pure. Ma quando entravi in Pino, quando lo capivi, ti accorgevi che era uno di noi, simpatico, pronto alla battuta, uno vero. Anche un capitano in campo e fuori, un fratello maggiore: una volta Maestrelli decise che doveva controllarmi di più a tavola, e finì che Pino veniva sempre a pranzo con me. Insomma ho passato la vita, a tavola con lui. Fino a poco tempo fa».

Del giocatore in sé, cosa diciamo?

«Ma che, devo raccontarvele io le sue qualità? Allora: a parte la famosa scivolata, che interpretava in modo favoloso, era il libero più forte di tutti. Come tempismo non aveva rivali, e non lo dico perché fosse della Lazio, mio capitano e amico. In Nazionale giocavano tutti liberi adattati: Cera che nasceva mediano, Facchetti terzino, Burgnich un ex stopper... invece Wilson era il più forte nel ruolo, ma era della Lazio, che era una squadretta, giusto? Almeno così la trattavano».

In Nazionale, infatti...

«Ai Mondiali del ‘74 c’era Burgnich libero titolare, a 35 anni, e Wilson, che aveva appena vinto lo scudetto con la Lazio, in panchina: capito? Lì c’era la lotta tra i clan, era Chinaglia contro tutti, cioè contro Sandro Mazzola e i suoi. Giorgio isolato con Wilson, cioè come con suo fratello, e Re Cecconi. E andò come andò».

Quanto ai clan, ce n’erano di fierissimi anche nella Lazio dello scudetto. D’Amico con chi stava?

«Ma no, io non contavo niente, non mi voleva nessuno. Diciamo che i clan, chiamiamoli per brevità “Wilson-China- glia” e “Martini-Re Cecconi”, vivevano separati: nelle partitelle, negli spogliatoi diversi, a tavola. C’erano anche scontri aspri, e sì, anche le armi. Si sa tutto di quelle storie, tonnellate di aneddoti sulle risse e sulle inimicizie, ci avranno scritto 14 libri. Ma la cosa più bella di quella ‘banda Maestrelli”, come ho sentito che la chiamano, è che la domenica si sprigionava una forza misteriosa: eravamo tutti per uno e uno per tutti, si metteva da parte ogni cosa, e vincemmo lo scudetto. Che senza Maestrelli, ricordiamolo, non sarebbe stato comunque possibile. Ma fu un’alchimia particolare, che infatti ci lega tuttora».

Contro il Venezia, lunedì prossi- mo, Immobile giocherà con la fascia rossa al braccio, in ricor- do di quella che portava sem- pre Wilson.

«Era un suo tratto distintivo, quasi estetico: sulla maglia biancoceleste la fascia bianca tradizionale si vedeva poco, invece il rosso risaltava meglio, era più bello. Pino si distingueva anche perché, da libero, indossava sempre la maglia numero 4: proprio perché gli altri liberi avevano tutti la numero 6. Ci siamo capiti, no?».

Wilson in campo era di modi raffinati anche nelle proteste, vero?

«Le mani dietro la schiena, intelligente e abile a parlare, furbissimo. Senti questa. Lazio-Juventus del 1974, 80mila all’Olimpico, siamo 2-0 per noi, gol di Garlaschelli e Chinaglia. Poi l’arbitro Panzino dà due rigori alla Juve, inesistenti. Il primo Pulici lo para a Cuccureddu, il secondo lo segna Anastasi. Un tifoso invade il campo perché vuole menare all’arbitro, lo portano via. La Juve attacca e cerca il 2-2, lo stadio ruggisce. Pino va da Panzino, tutto compito co- me era lui, e gli fa: “Signor arbitro, se tutta questa gente facesse invasione io non la fermo, eh?”. Subito dopo, guarda caso, palla in area della Juve, Morini forse sfiora Chinaglia, Panzino assegna il rigore: Giorgio trasforma, 3-1, vittoria, e da lì viaggiamo verso lo scudetto».

Pino Wilson riposerà insieme a Tommaso Maestrelli e Giorgio Chinaglia, la perfetta triade laziale.

«Questa è davvero una cosa stupenda. Arriverò a Roma nel fine settimana, e penso di andare a trovarli domenica prossima. Non posso mancare. Ci legano troppe cose, e per sempre». IlMessaggero

Rivivi l'ultima puntata stagionale di FootballCrazy, programma condotto da Elisa Di Iorio e dedicato a Pino Wilson. In studio Giancarlo Oddi e James Wilson
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