Foto di Gabriele Maltinti/Getty Images via onefootball
Foto di Gabriele Maltinti/Getty Images via onefootball

La lettera di Mattia Caldara

Sono arrivato al Milan. Era la mia grande possibilità. In quei colori erano racchiuse le mie speranze. Ottobre, un allenamento come tanti altri. Stavo correndo, all’improvviso una sensazione mai provata pima, come se qualcuno mi avesse sparato sul tendine. Pensavo che qualcuno mi avesse calpestato la caviglia. Mi ero voltato a guardare: non c’era nessuno. Ricordo la faccia di Maldini mentre ero sul lettino. Leggevo il dispiacere sul suo volto: avevo capito tutto. Mesi per recuperare, a marzo ero pronto per scendere in campo. Sono rientrato in Coppa Italia contro la Lazio.

Mattia Caldara è tornato”. Ero pronto per il mio debutto in campionato. Musacchio era squalificato, sarebbe toccato a me. Sarei tornato a giocare in Serie A, finalmente. Quanto avevo aspettato quel momento. Mi sentivo bene. Mi sentivo bene anche in quell’allenamento del giovedì. Avevo aspettato quel momento per un anno. Tutto finito in pochi secondi. Ho quell’immagine davanti a me. Borini mi cade sul ginocchio. “Crack”. Mi sono rialzato in piedi per tornare a correre, non potevo essermi rotto ancora. Appena ho appoggiato il piede, sono crollato a terra. La gamba non mi reggeva, il mio ginocchio era spappolato. Un suono, un secondo, un istante. La mia anima era devastata. Qualcosa era cambiato in me. Dal tendine mi ero ripreso, il ginocchio era diverso. Lo sentivo. “Non tornerò più quello di prima”. Una pagina della mia vita si era chiusa per sempre. Io ancora non lo sapevo. In quella settimana la mia vita è cambiata. Cambiata per sempre. La mia testa non era pronta per sopportarne le conseguenze. “Mattia Caldara è finito”.

Stava iniziando una nuova pagina della mia vita. Una pagina buia che sarebbe finita solo anni dopo. Nel mezzo un tendine rotuleo rotto e il problema alla cartilagine della caviglia che mi ha costretto a smettere. Ma tutto è cambiato con quell’infortunio al ginocchio. In quell’allenamento una parte di me è morta per sempre. Era stato messo la parola fine a delle pagine che avrei potuto scrivere. Pagine rimaste vuote, bagnate dalle lacrime e dalla frustrazione. Passi una vita intera dietro a un pallone. Poi basta un infortunio per cancellare tutto. Ogni giorno diventa uguale, fatto di dolore, dubbi, incertezza. Da vivere, passi a convivere. Convivere con una presenza costante, pesante, buia. Dal voler tornare ai tuoi massimi livelli all’arrivare a livelli accettabili e compatibili con il dolore provato. Un crack. Il mio mondo era stato (s)travolto. "Quando finirà tutto questo? Quando avrò un po’ di pace?".

Il malessere mentale non è semplice da spiegare a parole. Finché non lo vivi, non se ne conoscono sembianze ed effetti. È simile a un velo. Invisibile, ma capace di opprimerti. Da fuori non si vede, ne osservi solo le conseguenze. E, con il suo silenzio assordante, piano piano ti cambia. Ti offusca i pensieri, ti fa perdere lucidità, ti crea una bolla in cui sei rinchiuso e di cui diventi prigioniero. Nuove realtà, nuove regole, nuove logiche. E così è stato per me. Un mio mondo fatto di malessere in cui ero convinto di stare bene. Cure, trattamenti e allenamenti continui. Doversi gestire. La testa che durante le partite è concentrata a non farsi male. Fingere di stare bene. Così per anni. Tanti pensieri che viaggiavano incontrollati nella mia testa. Ogni giorno. Ogni mattina. “Devi tornare a essere il Caldara dell’Atalanta”. “Continua a lavorare, devi farlo”. “Ma Caldara quando rientra?”. “Dov’è Caldara?”. Frasi, voci, dubbi. La testa era piena, i pensieri aumentavano. Incessanti, sfinenti. E io volevo dimostrare di esserci ancora. Dimostrarlo al mondo del calcio, a compagni e allenatori, ai miei cari, a me stesso. Aspettative, aspettative, aspettative.

Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo. Leggerezza e spensieratezza non facevano più parte di me. E quando vivi situazioni simili, non fai del male solo a te, ma anche alle persone vicine a te. Le spegni. Le contamini con il tuo malessere. Smettono di stare bene. E la responsabilità è la tua. A me è successo questo. Per mesi, anzi, per anni sono stato concentrato su di me e su quello che dovevo fare. Mi ero creato un mio mondo, una mia bolla fatto unicamente da me stesso, dai miei bisogni, dai miei problemi, dalle mie illusioni. Mia moglie e i miei genitori avevano paura di chiedermi come stessi per timore della mia reazione. Non ero io. Mi ero dimenticato di chi era al mio fianco e mi voleva bene e non me ne rendevo conto.

Fino a quel giorno. “Non ti riconosco più, non sei te stesso”. Risuonano ancora forti in me le parole di mia moglie. Anche papà me lo aveva confessato. Erano preoccupati per me. Glielo leggevo negli occhi. Non riuscivo più a essere per loro quello che ero sempre stato. Una sensazione che mi uccideva. Ho compreso col tempo il male che ho fatto. Sono stato attraversato da un profondo senso di colpa. Ho rischiato di rovinare quella che in fondo è l’essenza della vita: l’amore e la famiglia.

Luglio 2025. Nuova visita da uno specialista. La prima che ho fatto insieme a mia moglie. Eravamo seduti davanti al dottore. “Mattia”. Attimo di silenzio. “Non hai più la cartilagine della caviglia. Se continui tra qualche anno dovremo metterti una protesi”. Il silenzio si fa più lungo e intenso. Avete presente quando vi viene detta una cosa che sapete ma che non vorreste mai sentirvi dire? È stato come sbattere contro la realtà. Era davvero la fine? Stavo davvero per chiudere quella pagina della mia vita che durava da quando ero piccolo? Dentro di me ancora non riuscivo ad accettarlo. Ho continuato ad allenarmi. Stavo recuperando da un problema all’adduttore. Fino a fine agosto mi sono allenato con l’idea di dovermi preparare per una nuova stagione. Dentro di me speravo che potesse arrivare una chiamata. Io continuavo a correre con il dolore. A fine agosto ho fatto delle punture di TRT, ovvero iniezioni di testosterone. “Mattia l’ago non passa, non c’è spazio tra la tibia e il piede. Decidi tu, ma se continui così dovrò metterti la protesi”. In quel momento l’ho deciso. Mi sono convinto. “Cosa vado avanti a fare?”. Ero in quella situazione nonostante avessi corso molto meno di quanto avrei fatto in un ritiro con una squadra. “Che senso ha tutto questo?”.

Era il momento di dire basta. Basta al calcio giocato e, soprattutto, alla sofferenza e al vuoto che da anni mi accompagnavano. Anni in cui mi sono nascosto da me stesso. Ho ripreso in mano la mia vita. Sto recuperando quello che ho perso. Anche se, a volte, perdersi serve. Serve per ritrovarsi in una prospettiva e consapevolezza diversa. È bello. Mi sono ripromesso di apprezzare ogni momento e ciò che ho. La vita ti può cambiare in un secondo. Voglio essere grato. E al calcio non posso che dire grazie. È vero, mi ha fatto stare male. Ma anche il dolore serve. Ho deciso di dirgli addio. Lo faccio per la prima volta con questa lettera.

Ciao calcio, sono pronto a salutarti. L’ho fatto. Mi sento più leggero. Mi sento libero di essere me stesso, finalmente. Ripongo questa penna sul tavolo. Mi posso alzare da questa sedia e iniziare a camminare. Si abbassa il sipario. In campo ora c’è Mattia.

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