Martini: “Ci chiamavano fascisti. Le Brigate Rosse volevano colpirci, giravamo con le pistole”
L’intervista a La Gazzetta dello Sport dell’ex calciatore biancoceleste Gigi Martini

Ai taccuini del quotidiano La Gazzetta dello Sport è intervenuto l’ex calciatore biancoceleste Luigi Martini, un uomo che ha dedicato tutta la sua vita al calcio, ma non solo. Protagonista dello scudetto del 1974, il primo della storia della Lazio, Martini si è lasciato andare ad una serie di ricordi dell’intervista al quotidiano, parlando anche degli anni difficili trascorsi alla Lazio quando la politica si mischiava violentemente con il calcio, fino a svelare un retroscena riguardante proprio le Brigate Rosse.
L’intervista di Martini
Il suo esordio come calciatore
Avevo sette-otto anni e vivevo a Capannori, un comune limitrofo a Lucca. Nei due km di tragitto casa-scuola, con un pallone sgonfio, giocavo partite immaginarie e, quando arrivavo nella piazza, ad accogliermi c’era il sarto del paese affacciato alla finestra, un tipo strambo che parlava da solo, immaginavo che davanti alla lui ci fossero centinaia di persone, invece c’erao soltanto io. Mi incitava e applaudiva. Avevo una passione che mi divorava. Ho cominciato a giocare con la Lucchese in quarta serie e nel 1971, a 22 anni, sono arrivato alla Lazio.
Gli anni alla Lazio
Eravamo forti e fragili, uniti e divisi. Immortali e maledetti. Tanti amici se ne sono andati giovani, prima del tempo. Di noi dicevano: la squadra di fascisti. La Digos ci avvertì: “Le Brigate Rosse stanno progettando un attentato contro di voi”. Avevamo il porto d’armi, giravamo con le pistole, Petrelli sparava ai lampioni, io andavo tre volte alla settimana al poligono. Ci allenavamo in due spogliatoi diversi. Da una parte Chinaglia, Wilson, Pulici, Nanni, Oddi; dall’altra io, re Cecconi, Frustalupi, Petrelli, D’amico era un ragazzino, Garlaschelli stava per i fatti suoi. Ci guardavamo di sbieco, nelle partitelle ci si menava senza pietà. A vigilare su tutti la persona più bella che ho conosciuto: Tommaso Maestrelli.
Su Mestrelli
Un uomo immenso e buono, lo definirei un comunicatore evangelico. L’immagine che porto nel cuore è della domenica dello scudetto, quando vincemmo lo scudetto contro il Foggia. Ricordo Maestrelli che si porta le mani ai capelli e piange, piange tutte le lacrime che ci sono state e quelle che verranno.
Su Chinaglia
Giorgio voleva solo “fare giò”, come diceva lui. Era un ragazzo d’oro, ma incazzoso. Ha combattuto tutta la vita con i demoni che aveva dentro.
Su Luciano Re Cecconi
Luciano ancora oggi è l’ombra che mi cammina accanto. Lo convinsi a lanciarsi con il paracadute. Mi diceva: Gigi, e se cadendo, ci spacchiamo le gambe? E subito dopo eravamo in volo, insieme. Sono arrivato in ospedale pochi minuti dopo che era morto, il medico mi prese il dito e l’accompagnò sul rene di Luciano, dove si era fermato il proiettile. Non credo all’ipotesi dello scherzo, non esiste. Ho letto gli atti, nessun testimone l’ha sentito pronunciare la frase: “Fermi tutti, questa è una rapina“. Luciano non lo avrebbe mai detto. Sono convinto che sia partito un colpo accidentale. Il gioielliere aveva paura, era stato rapinato più volte. Impugnava una pistola 7,65 cm con il cane sensibilizzato, prima ha puntato l’arma su Ghedin e poi, spostandola appena, ha sparato. Basta un niente, basta sfiorare il grilletto.
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